Dare dell’asino a uno scolaro disattento o svogliato era uso comune; ai più scaldapanche, poi, un tempo venivano messi anche dei giganteschi orecchi di carta; l’asino è stato sempre ingiustamente preso come simbolo di zotichezza, caparbietà e ottusità. Leggende, detti, proverbi nel corso dei secoli hanno fatto dell’asino un animale tra i più, o il più bistrattato, dall’uomo. Ma, anche, molte volte l’uomo per sua maligna natura infierisce sugli esseri più miti e indifesi.
Per cambiare idea basterebbe osservare gli asini che seguono i pastori, o quelli che vanno per aride montagne con ghirbe o fasci di legna sui basti, o che girano le ultime norie per sollevare l’acqua dai pozzi, o quelli che nei paesi più poveri servono da cavalcature poco chiedendo in cambio. Ho anche conosciuto un sant’uomo che agli amici che più stimava dava dell’asino, riservando il titolo di signore ai più scostanti e inattivi.
Dopo aver scritto di alquanti animali, oggi proprio di un’asina mi viene da raccontarvi; dell’asina Giorgia che per tanti anni fu amica di tutti qui nella nostra contrada.
Era del Bepi dei Pune, il pastore che per l’età ha smesso di fare l’erratico ma ugualmente non può restare senza animali che impegnino i suoi giorni; così con un cane nero, Sbartz, e poche pecore volle tenere anche la vecchia asina che per quasi trent’anni l’aveva accompagnato per monti e pianure.
Grande di statura, canuta sulla fronte e sul ventre, insellata di schiena, gli zoccoli nudi di ferri erano nudi come le pietre sulle quali camminava pe salire le cime; gli occhi erano dolci e uomini ma a volte illuminati da un lampo di furbizia. Quando era sui pascoli qui attorno ragazzi e anche bambini si avvicinavano confidenti per porgerle tozzi di pane secco che lei prendeva delicatamente con le labbra senza far vedere i denti gialli e forti, ma anche ormai consunti per tanto masticare. Pure vetusta non solo masticava pane duro, ma anche carrube e noci che qualche villeggiante le offriva.
Ma come era mite e paziente con i bambini era anche amica del cane Sbartz e qualche volta giocavano: lui le prendeva con i denti la cavezza e la strattonava saltando o accucciandosi sulle gambe anteriori: lei faceva finta di arrabbiarsi calciando a vuoto con le zampe appaiate. Pure alle quattro pecore era affezionata e quando erano al pascolo s’accompagnava con loro e le guidava a rosicchiare ai margini del bosco.
Dove l’asina Giorgia dimostrava la sua qualità di animale sensibili e acuto era nel comportamento verso il padrone. Ricordo un inverno con poca neve che Bepi si era intestardito a dissodare qualche centiara in una valletta su un monte qui vicino. Era un luogo tutto sassi e cespugli, selvaggio e in ripida riva ma bene esposto al sole di mezzogiorno, tanto che la neve lì è sempre la prima ad andarsene ed è il primo posto dove a marzo cantano le allodole.
Quest’uomo, forse ultimo rappresentante di una generazione di montanari di una volta, quelli che lavorano molto bene e con passione legno, terra e animali, e che sanno raccontare tante storie, ogni mattina lo vedevo salire al monte con i suoi animali. Giunto alla riva solata si levava la giacca e con metodo e senza fretta si chinava a roncare il terreno.
Se il cane nero e le pecore si allontanavano nei dintorni, l’asina si fermava a fargli compagnia e stava per delle ore sulle quattro zampe a guardarlo lavorare curvo sulla terra. Lui a volte parlava e gesticolava da solo e con il capo seguiva il soliloquio, l’asina allora lo seguiva anche lei muovendo la testa e le orecchie, o alzando una zampa o le labbra. Quando poi suonava la campana del mezzogiorno e Bepi non la sentiva (è un po’ sordo), la Giorgia gli ragliava forte indicando con il muso la casa giù nella contrada dove fumavano i camini ed erano pronti in tavola il minestrone e la polenta.
Ogni anno l’asina si prendeva alcuni giorni di libertà. Bepi dice e sostiene che era lei ad aprirsi la porta della stalla manovrando con la bocca lo spago del saliscendi; invece c’era un accordo tra i due perché al tempo giusto una sera lui accostava la porta senza mettere il paletto e in quella notte l’asina se ne usciva per camminare le antiche strade della transumanza verso le montagne più alte. Così la moglie e i figli di Bepi erano costretti a lasciarlo andare alla ricerca dell’animale.
Restavano via da casa quattro o cinque giorni girando dall’una all’altra posta delle greggi e sostando con gli amici senza mai incontrarsi, finché da finto arrabbiato Bepi la ritrovava come a un appuntamento alle Grotte dei Cuvolini, ai piedi di Cima XII. Questo accadeva in luglio, dopo la fienagione a cui l’asina cooperava alacremente trasportando il fieno dai prati più lontani al fienile di casa.
L’altra fuga avveniva in settembre, nel tempo che i pastori scendevano dai pascoli alti e sostavano nelle materne contrade prima di avviarsi alla pianura. La Giorgia andava a salutare i compagni e le compagne attraversando una valle e fermandosi nei paraggi dell’Osteria della Campanella; dove Bepi la ritrovava avendo così occasione di sostare un giorno con gli amici pastori.
Nel tempo di carnevale qualche volta dei buontemponi paesani venivano a prendere l’asina per fare festa assieme, e la portavano in maschera negli alberghi e nei caffè del centro; la spingevano anche a bere: assaggiava un po’ di vino o di birra, mangiava un dolce o un biscotto e quando gli accompagnatori erano traballanti sulle gambe e non sapevano ritrovare la strada di casa lei li lasciava e tranquilla riprendeva la via per le nostre contrade senza sbagliare un bivio, fermandosi solamente davanti alla porta della sua stalla.
In questi ultimi anni la Giorgia era diventata vecchia e sdentata, grigia e con il ventre gonfio; ormai le era riservata ancora poca vita e Bepi, quando erano soli, le parlava con la saggezza di chi ha visto tante cose e aspetta la fine.
Un inverno vennero gli artiglieri di montagna a fare il campo mobile e un pomeriggio di febbraio scesero con i muli lungo la strada sotto casa. Questi muli erano veramente animali splendidi, alti, pieni di vigore e di giovinezza, lucidi di pelo e briosi nel passo; camminavano sulla neve come danzando. Anche Bepi dei Pune li vide dalla sua casa e allora andò nella stalla, prese la cavezza la sua vecchia asina e la condusse a vedere i muli della naia che passavano con i loro carichi.
Per un po’ li seguirono; poi, anche, li precedettero per una scorciatoia sicché tutti sfilarono davanti a loro due che immobili e in silenzio stavano su un ponticello. Artiglieri e muli capirono il momento e nessuno osò lanciare frizzi o suoni ironici.
Stettero lì a seguirli con lo sguardo anche dopo che erano passati l’ultimo mulo e l’ultimo conducente, e quando ritornarono verso casa anche l’asina Giorgia aveva due lucciconi che le scendevano dagli occhi.
(Mario Rigoni Stern, Il libro degli animali, Torino, Einaudi, 1990)